“Mussolini il capobanda” di Aldo Cazzullo

Perché leggere un libro come questo?

di Bruna Osimo

Nella tarda primavera di quest’anno un amico mi invitava a leggere questo libro. «Perché dovrei dedicare energie del mio cervello e del mio cuore a leggere di Mussolini?» gli rispondevo. Ma l’amico insisteva[1]. L’ho ascoltato e ho scoperto che aveva profondamente ragione. E ho deciso di condividere il suo invito: leggere questo libro aiuta a sistemare alcuni “buchi di significato” nel valore attribuito a fatti di quel periodo della vita italiana. È un libro di divulgazione elegante e, con il suo stile, l’autore ci porta per mano in un esercizio di democrazia nelle sue valenze pubbliche e private, sociali e familiari.   

Dopo avere letto d’un fiato il primo capitolo, ho dovuto interrompere per diverse settimane la lettura, che ho ripreso nell’agosto. Ero profondamente turbata dalla crudeltà dell’uomo Mussolini nel suo comportamento verso una donna, Ida Dalser, un’amante poi scartata, e del loro figlio Benitino. Non ostante avessi sempre esecrato nel mio giudizio il “capobanda” e non solo per le leggi razziste del 1938, la scoperta di tale crudeltà aggiungeva, se possibile, qualcosa in più.

Aldo Cazzullo narra come madre e figlio, entrambi non fossero pazzi ma per Mussolini, una volta arrivato al potere «erano fastidiosi. … Si era infilato in una storia d’amore divenuta un pasticcio. Un ostacolo. E come ostacolo erano stati rimossi.».   

«Siamo nel 1914. … e Mussolini ritrova a Milano Ida Dalser una giovane donna trentina. … È una donna moderna. … Si è diplomata a Parigi in medicina estetica, nel 1913 si è trasferita a Milano, e ha aperto un centro estetico … È un successo. … Ida ha talento per gli affari, guadagna bene e mette i soldi da parte. Di soldi Mussolini ne ha molto bisogno …». Il racconto prosegue. Ida rimane incinta nel 1915 e si ritrova a vivere in una stanza d’albergo: per pagare i debiti del suo amante – giornalisti e tipografia de ‘Il Popolo d’Italia’ – ha ceduto il suo salone di bellezza, ha impegnato i suoi gioielli, ha venduto il suo appartamento in via Ugo Foscolo.  Mussolini va al fronte e la nomina destinataria del sussidio insieme al figlio.

Ma sposerà Rachele e Ida, nel 1916, si rivolge al tribunale e lo obbliga a riconoscere il figlio: non demorde, anche se ritorna a vivere a casa della sorella a Trento.

«Nel 1926 il ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, va in visita a Trento … Ida lo conosce e tenta di farsi ricevere. Ha 46 anni … Vuole un colloquio con il Duce. La reazione è fulminea. Viene ricoverata a forza nel manicomio di Pergine Valsugana. … Scriverà centinaia di lettere, anche al Papa e al re, tutte inutili: nessuna sarà mai spedita, la direzione del manicomio ha ordini precisi; Ida Dalser ufficialmente non esiste più.» Morirà a 57 anni, in un ospedale psichiatrico, nel 1937a Venezia. Stessa sorte toccherà a Benitino che morirà nel manicomio di Mombello a Limbiate, vicino a Milano. «Medici compiacenti lo dichiarano pazzo. …la sua unica follia è dichiararsi figlio di suo padre. Nel 1942 Benito Albino muore. Non ha ancora ventisette anni. Non sappiamo nulla di preciso delle sue sofferenze.» Sappiamo per certo che, a distanza di anni prima la madre nel 1926 e poi il figlio nel 1935, vennero presi in consegna dalla polizia e rinchiusi – prima l’una e poi l’altro – in manicomi, dove arrivarono alla morte. Per inedia o altro, l’importante era che scomparissero.[2]

L’autore ci propone anche importanti riflessioni sulla persecuzione degli oppositori, fino alla loro eliminazione fisica.

Molti vengono “fatti morire a bastonate” in modo che la loro fine – immediata o no – diventi un esempio per tutti. È un paese che sperimenta la morte fisica di chi si oppone a chi governa e la paura che si diffonde: una paura che può diventare ancora più acuta provocando una reazione di difesa “quasi inconscia” quando la morte è lunga e dolorosa. «Proviamo a pensare cosa significa per una persona sapere che può essere colpita in qualsiasi momento. Che nessuno la difenderà, perché il potere sta dalla parte degli aggressori. … dieci contro uno, con le spalle coperte, con lo scopo di far male, di umiliare, di denigrare, di punire una persona innocente».[3]

Piero Gobetti morirà per le conseguenze dei pestaggi subiti. «Il primo giugno 1924 il Duce telegrafa al prefetto di Torino … ‘Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore’ … Otto giorni dopo Piero viene massacrato di botte nell’androne di casa. È il 9 giugno, il giorno che precede la scomparsa di Matteotti. Gobetti lancia un appello a tutti gli oppositori del regime perché si uniscano per salvare la democrazia. Viene aggredito una seconda volta». Si era sposato nel gennaio ’23 e continua la sua azione. «Scrive ‘Bisogna amare l’Italia con orgoglio di europei e con l’austera passione dell’esule in patria’. Il 5 settembre 1925 viene pestato selvaggiamente per la terza volta». L’ultimo libro da lui scritto nel 1924 si intitola “Matteotti”. Il 3 febbraio del 1926 parte per Parigi: il 28 dicembre del 1925 era nato il figlio Paolo. «Nel giro di pochi giorni la situazione precipita … Lo ricoverano in una clinica … dove muore a mezzanotte del 15 febbraio. Non ha ancora 25 anni ma ha già lasciato una traccia prodigiosa».[4]

Aldo Cazzullo ci guida a considerare il protrarsi degli effetti, dopo la caduta della dittatura fascista, della eliminazione fisica degli oppositori. «Matteotti sarebbe stato un leader naturale della socialdemocrazia europea, se fosse stato vivo nel secondo dopoguerra … era rigoroso eppure pragmatico, dotato di una visione internazionale, competente in economia. Tra le sue molte responsabilità Mussolini ha anche quella di avere privato il Paese di figure – il liberale Giovanni Amendola, il marxista eretico Antonio Gramsci, il socialista Giacomo Matteotti, il riformista Carlo Rosselli con il fratello Nello – che avrebbero contribuito a costruire un’Italia migliore. Il Duce ha distrutto una classe politica a suon di bastonate … per sostituirla con un ceto mediocre (tranne qualche eccezione) … ottuso e xenofobo, autoritario e violento, selezionato in base all’obbedienza e non all’intelligenza».

«Matteotti nel 1919 è eletto deputato, … nel 1921 gli squadristi lo aggrediscono per la prima volta, … nel 1922 diventa segretario del partito socialista unitario … i massimalisti hanno espulso Turati e i riformisti che hanno visto in Matteotti il leader della nuova generazione … è sempre più solo … il 30 maggio 1924 prende la parola alla Camera … sa leggere i bilanci: intende rivelare quello che ha scoperto sulle tangenti sul petrolio … il 10 giugno del 1924 cinque assassini lo aspettano sotto casa … i quotidiani danno la notizia della scomparsa di Matteotti». Il Duce si accanirà nuovamente su una donna, la moglie di Matteotti: «Velia Titta una studentessa della Normale di Pisa, conosciuta in vacanza all’Abetone. … Mussolini non ha nessuna pietà della vedova … vuole punirla per avere osato tenergli testa». Gli ordini sono «di intensificare una stretta vigilanza che durerà sino alla fine». Velia muore a 48 anni, nel 1938 in ospedale. «Ai funerali … sul feretro sono deposti due mazzi di fiori rossi. Vengono sequestrati».[5]

«Il 1926 fu un anno disastroso per … gli oppositori del regime … In un clima drammtico, seppero cogliere però un piccolo, significatvo successo. Riuscirono a mettere in salvo Filippo Turati»: e questo è l’ultimo punto su cui mi voglio soffermare. È importante anche per me personalmente, perché mi aiuta a sistema “ricordi di famiglia”. «Il vecchio leader del socialismo milanese era la bestia nera del Duce … viene pedinato, privato di ogni forma di sostentamento, la casa sistematicamente perquisita.  … L’episodio più vergognoso avviene ai funerali di Anna Kuliscioff, da quasi quarant’anni la compagna di Turati. È il 29 dicembre 1925. I fascisti aggrediscono le persone … strappano i nastri delle corone funebri … costringono lo stesso Turati a fuggire, saltando su un taxi».

«È allora che un gruppo di personaggi d’eccezione decide … di salvare il vecchio leader. Due sono le menti. Il primo è Ferruccio Parri … il secondo è Carlo Rosselli». «La casa di Turati è sorvegliata … ma Rosselli lo conduce fuori … un berretto calato sulla testa, un passaggio attraverso i solai. Viene nascosto a Ivrea … nella casa di Camillo Olivetti poi a Torino da Giuseppe Levi … Si decide per la fuga via mare, attraverso la Corsica … partendo da Savona. Il riferimento sul posto è un giovane avvocato, già aggredito tre volte dai fascisti … che quaranta giorni prima gli hanno spezzato un braccio. Si chiama Sandro Pertini». «Con il denaro di Carlo Rosselli un amico di Pertini, Lorenzo Da Bove, si procura un motoscafo. Al timone c’è Italo Oxilia, capitano di lungo corso.La sera dell’11 dicembre 1926, un’auto corre veloce da Torino a Vado Ligure … Turati è a bordo. La guida il figlio di Camillo: Adriano Olivetti».«La barca attende a un molo dismesso. Il mare è in tempesta … Oxilia e Da Bove si alternano al timone … La traversata dura dodici ore. Turati, Pertini, Parri e Rosselli attraccano al molo di Calvi dove vengono arrestati. Ma quando i gendarmi capiscono chi hanno di fronte l’atteggiamento cambia: il circolo repubblicano di Calvi organizza un ricevimento in onore di Turati, che viene poi portato a Nizza. Non tornerà più in Italia». [6]

Questo racconto mi ha aiutato anche a sistemare un ricordo familiare che ha preso nuova luce attraverso la lettura. Mio padre raccontava che il nonno, suo padre – diventato Provveditore agli Studi di Milano a quarantasei anni – socialista e amico di Turati e della Kuliscioff, era andato al funerale di Anna. Il giorno successivo era stato immediatamente “degradato” a Preside del Liceo Parini e l’anno successivo trasferito in un Liceo di Vigevano. Il racconto di mio padre faceva seguito a domande di mia sorella e mie: avevamo trovato una pagella di mio padre, del liceo Parini, in cui la firma del padre e la firma del preside erano identiche. Avevamo iniziato a prenderlo un po’ in giro insinuando che fosse facile così essere promosso.

Mio padre aveva raccontato la storia dell’amore tra la Kuliscioff e Turati e aggiunto che in qualche modo il nonno aveva aiutato Turati a fuggire. Ma a questo proposito il ricordo era confuso e lacunoso. All’epoca dei fatti mio padre aveva quindici anni, era il più piccolo dei tre figli e certamente il nonno gli aveva taciuto gli episodi di violenza al funerale, di cui non c’era traccia nel racconto di mio padre. Mentre ricordava come il nonno fosse molto avvilito, e l’irrompere di una sorta di agorafobia, con la nonna che lo accompagnava sempre al lavoro a Vigevano. Certamente l’accaduto doveva avere molto provato il nonno che non si riprenderà più nello spirito e morirà di infarto a 48 anni.

Concludo qui, senza dimenticare l’oppositore della Libia Omar al-Mukhtar, arrestato e condannato a morte con «Badoglio che ordina che l’esecuzione della sentenza avvenga avanti a ventimila cirenaici: nel 1981 la storia di al-Mukhtar diventa un film con Anthony Queen “Il leone del deserto”, ma nelle sale italiane non arriverà mai».[7]

E senza dimenticare l’introduzione nel «Codice Penale dal 1930, del delitto d’onore, una vergogna che sarà cancellata solo nel 1981». [8]

Come tutte le dittature anche il fascismo ha seminato paura, tanta e non scordiamoci che spesso alla paura si accompagna la vergona: e che la vergogna genera isolamento, non solidarietà. [9]


[1]   Si chiama Tonino Mulas, è uno dei miei amici più intelligenti nel cuore e nella mente: diventammo amici avvicinandoci alla politica nei movimenti giovanili della fine anni sessanta a Milano e non ci siamo mai persi di vista, anche grazie a lui.

[2]  Aldo Cazzullo “Mussolini il capobanda”, ed. Mondadori Libri SpA, agosto 2022, pagg.17-29

[3]   Op cit. pagg.131-132

[4]   Op cit. pagg.113-115

[5]  Op cit. Capitolo V «Le vittime» pagg.117-123. L’autore cita anche opositori cattolici: «Si pensi a Don Sturzo, costretto all’esilio, De Gasperi e Gronchi fuori gioco per vent’anni, don Giovanni Minzoni assassinato», pag.118.   

[6] Op cit. pagg.146 -149

[7] Op cit. pagg.215-220

[8] Op cit. pagg.173

[9] Pedra Delicado, è una ispettore di polizia, creata dalla scrittrice Alicia Jiménez-Bartlett, pubblicata in Italia da Sellerio. Coduce molte indagini con il suo vice Fermìn Garzon, e nel corso di una di queste, dedicata a episodi di violenza sessuale,i due si chiedono perchè alcune giovani donne non vogliano testimoniare. “Avevano subito qualcosa di innominabile, erano state sottoposte a una profonda umiliazione, e per essere solidali è necessario conservare intatta la propria dignità. L’umiliazione rende individualisti fino a eccessi insospettati, è alla base del conflitto interiore e dell’isolamento” dicono ragionando tra loro.

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